Nell’ampie terre, alla più dotta mano Di lui che a fondo lo ricerchi, e nove 220Ignorate dovizie al mondo arrechi, E nova appresti salutar vivanda A popol novo; se a lui basti il tempo, Che pel discreto canone gli assegni.
Già scocca un’ora e l’ultima s’avanza: 225E tu con fioca voce e moribonda Per infiniti secoli presumi Delle cose fermare il moto eterno? L’uno il frutto raccolga, all’altro lascia La borïosa pianta, e il tuo decreto 230Saldo rimanga come in rupe scritto. Oh! dalla tomba sollevare il capo Dato un giorno ti fosse, e le deserte Ville mirare, e le cadenti case, E da infami paludi il suol coperto 235Non più lieto di mèssi e di felici Abitatori, che l’aure omicide Ad uno ad uno spensero col lento Avvelenato sorso. Orrido e muto In tetra solitudine converso 240Lo sterminato campo i tuoi divieti Ricorda al mondo che s’adira e piange; Mentre, all’orgoglio degli estinti i vivi Sagrificando, i posteri condanni All’inerzia de’ vivi, al debil nerbo 245Od al corto veder: chè il tuo decreto All’intelletto un raggio non infonde, Ma le torpide voglie rassicura, Le pronte arresta e le gagliarde fiacca.
Langue la pianta cogli aridi rami, 250O di maligno umore il dente allega, Se a chi nell’arte dell’industre taglio