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l’agricoltura 23

150Fatto non è dalla indigesta mensa.
Nei riposati sonni si rintegra
A novi sforzi il nerboruto braccio;
Nè con larve terribili la fame
Fa del letto balzar, pane chiedendo
155Pei cari figli che domandan pane
Là sulla terra maceri ed ignudi.
Un nembo sorge e con lampi e con tuoni
Devastatrice grandine minaccia.
Voi chinate la fronte a lui, che solo
160I turbini governa e le tempeste.
La beffa no, la noncuranza nuoce
Di chi ozïando nelle aurate sale
Al rustico garzon scioglier non degna
Veraci detti e coll’esempio e l’opra
165Porre ai detti suggello. Io so che l’arte
Ai campi nega il facile compenso
Dell’officina, che ad ognun misura,
Entro a breve confin, di cento parti
Quella parte che a ognun meglio si attempri.
170L’arte in colpa chiamare io non presumo;
Ma voi condanno, che il cultor lasciando
Nelle tenebre sue, biasmo gli date
E mala voce, allor che un improvviso
Raggio ne offende la pupilla incerta.
175Voi co’ rigidi patti, a cui s’inchina
In vista, ribellando in suo segreto,
Non di umano signor che il pondo libra
E il sacrifizio alla mercede adegua,
Ma di superbo vincitor, che il piede
180Calca sul vinto e la sua legge impone,
Modo tenete. Oh! dura legge e stolta,
Onde col danno la vergogna resta.
Tanto l’alma vigor al braccio infonde,