150Fatto non è dalla indigesta mensa. Nei riposati sonni si rintegra A novi sforzi il nerboruto braccio; Nè con larve terribili la fame Fa del letto balzar, pane chiedendo 155Pei cari figli che domandan pane Là sulla terra maceri ed ignudi. Un nembo sorge e con lampi e con tuoni Devastatrice grandine minaccia. Voi chinate la fronte a lui, che solo 160I turbini governa e le tempeste.
La beffa no, la noncuranza nuoce Di chi ozïando nelle aurate sale Al rustico garzon scioglier non degna Veraci detti e coll’esempio e l’opra 165Porre ai detti suggello. Io so che l’arte Ai campi nega il facile compenso Dell’officina, che ad ognun misura, Entro a breve confin, di cento parti Quella parte che a ognun meglio si attempri. 170L’arte in colpa chiamare io non presumo; Ma voi condanno, che il cultor lasciando Nelle tenebre sue, biasmo gli date E mala voce, allor che un improvviso Raggio ne offende la pupilla incerta. 175Voi co’ rigidi patti, a cui s’inchina In vista, ribellando in suo segreto, Non di umano signor che il pondo libra E il sacrifizio alla mercede adegua, Ma di superbo vincitor, che il piede 180Calca sul vinto e la sua legge impone, Modo tenete. Oh! dura legge e stolta, Onde col danno la vergogna resta. Tanto l’alma vigor al braccio infonde,