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la penuria. 121

     Se alla mia mensa dispensar m’è dato
     Con facile pecunia un doppio pane,
     A dimezzarlo, a stringerlo per doppia
     260Difficile pecunia io mi ricuso.
     Forse a giustizia e a caritade oltraggio
     Reco, se della mia gente la vita
     M’è cara, ad essa invïolato il frutto
     De’ suoi campi serbando, a più benigna
     265Tempra soggetti di feconda stilla?
     Dalla vampa del Sol malvagi e tristi
     Piovvero influssi? A volontaria offerta
     Il mercatante appello, e l’ali al piede
     Coll’offerto tributo ancor gli aggiungo.
     270E gl’indugi accusandone, trascorro
     Io stesso in cerca, e dell’amato incarco
     Lieto ritorno, a un volgere di chiave
     Dell’abbondanza il corno rovesciando.
     Al mercatante e al panattier col cenno
     275Della rapida verga ordine e legge
     Darò; ne fia che più le ingorde arpie
     Spreman le vene alle dolenti turbe. —
Oh corta sapïenza de’ mortali,
     Che di Giove le folgori scagliando
     280Presumono imperare al fato avverso,
     Possente più di Giove onnipossente!
     Sempre una corda ritoccar non giova,
     Che più volte vibrò contro l’insana
     De’ tuoi divieti indomita baldanza.
     285Ma pur non taccio, che a contrario fine
     Riescon sempre. Alle lugubri note
     L’accesa fantasia, volando in alto,
     Il confine dei prezzi a un tratto varca.
     Nè del pudico gabellier la faccia
     290Si volge a riguardar quando trapassa