Se alla mia mensa dispensar m’è dato
Con facile pecunia un doppio pane,
A dimezzarlo, a stringerlo per doppia 260Difficile pecunia io mi ricuso.
Forse a giustizia e a caritade oltraggio
Reco, se della mia gente la vita
M’è cara, ad essa invïolato il frutto
De’ suoi campi serbando, a più benigna 265Tempra soggetti di feconda stilla?
Dalla vampa del Sol malvagi e tristi
Piovvero influssi? A volontaria offerta
Il mercatante appello, e l’ali al piede
Coll’offerto tributo ancor gli aggiungo. 270E gl’indugi accusandone, trascorro
Io stesso in cerca, e dell’amato incarco
Lieto ritorno, a un volgere di chiave
Dell’abbondanza il corno rovesciando.
Al mercatante e al panattier col cenno 275Della rapida verga ordine e legge
Darò; ne fia che più le ingorde arpie
Spreman le vene alle dolenti turbe. —
Oh corta sapïenza de’ mortali,
Che di Giove le folgori scagliando 280Presumono imperare al fato avverso,
Possente più di Giove onnipossente!
Sempre una corda ritoccar non giova,
Che più volte vibrò contro l’insana
De’ tuoi divieti indomita baldanza. 285Ma pur non taccio, che a contrario fine
Riescon sempre. Alle lugubri note
L’accesa fantasia, volando in alto,
Il confine dei prezzi a un tratto varca.
Nè del pudico gabellier la faccia 290Si volge a riguardar quando trapassa