Che l’ombra della tua verga protegge,
Tu fai del dipintor giudice il cieco. 225Perchè ti sdegni? Dai remoti lidi,
L’ire de’ venti impavida sfidando,
Non partirà la dispiegata vela,
Se del lungo vagar non la ristori
Un raggio che da’ tuoi lidi l’appelli. 230A che più tardi? L’indiscreta voglia,
Ancor tardando, del cultor fomenti,
E i pigri, ambizïosi, aurati sonni,
Che il letto molle ed il purpureo nembo
Di fresche rose e facili consola. 235La plebe calca e insanguina le spine!
Quando preme l’inopia, a te non vola
La vela velocissima coi venti,
Se nella inospital terra si neghi
Dal soffio infido di volubil aura 240Libero varco e libero ritorno.
Siccome l’acqua per opposta diga
In livida palude si ristagna,
Così la biada che al bisogno eccede
In basso cade, e le speranze tronca 245Dell’industre cultor, che ai noti solchi
Toglie l’aratro; onde la magra plebe
Fia che tra poco batta il dente asciutto.
E ancor rimane coll’asciutto dente,
Se la mèsse nativa all’uopo è scarsa, 250Ed al soccorso timida si arretra
La man, che dell’acuta unghia paventa
Le dure strette e i temerari sfregi.
Dal tuo sillogizzar non ti rimove
Il lume di ragion, cui mille e mille 255Antichi e novi memorandi esempi
Limpido specchio fanno a chi ben guardi. —