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novella liii 239

terre del preditto re, da certi scelerati omini villanamente fu vituperata. Di che ella senza alcuna consolazione dolendosi, pensò d’andarsene a richiamare a’ re. Et essendole ditto che perderè’ la fatica perché lo re era di sì cattiva vita e sì da poco e con sì poco cuore che non che l’altre onte vendicasse con giustizia, ma le infinite a lui fatte con vituperevole viltade lui sostenea, intanto ch’era tenuto sì da poco che ogni femminella li dicea villania; di che madonna Isabetta, disperata della vendetta che sperava si facesse dell’oltragio riceuto, con alcuna consolazione della sua noia propuose di voler mordere con alcuno motto di vergogna il ditto re.

Et andatasene dinanti a lui, disse: «Signor mio, io vegno innella tua presenzia non per vendetta ch’io atenda della ingiuria che a me è stata fatta innel tuo terreno, ma in satisfaccimento di quella ti prego che m’insegni come sofferi, essendo tu re, le ingiurie che a te sono fatte — tante che io per me n’ho per tuo amore dispiacere — , et acciò che da te apparando io possa pazientemente la mia comportare. Il che Dio lo sa, s’io far lo potesse, la ingiuria che a me è stata <fatta> volentieri te la donerei, poi che così buono comportatore ne se’».

Lo re, udendo lo bel dire della donna, essendo fine a quel punto stato tardo e pigro, come che dal sonno si disvegliasse, cominciando dalla ingiuria fatta a quella donna, la quale gravemente vendicò, rigidissimo perseguitore divenne di chi mal facea e di chi contra la corona <e> del suo onore alcuna cosa dicesse e per l’avenire commettesse.

Ex.º liii.