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di non essere in quella stanza della trattoria, dalle pareti stuccate di bianco, dagli specchi incorniciati di oro, dai divani di velluto rosso, dal caminetto di marmo bigio; tristi di non avere quella bella e dura luce del gas, quel mazzo di fiori nel vaso di porcellana, per lo più formato da dalie multicolori; tristi di non esser serviti da Peppino, il cameriere in marsina, dalla camicia sgargiante e dalle guance azzurrognole, rase di fresco; tristi appunto perchè sapevano quello che mangiavano, la carne di vaccina, dura e tigliosa, il formaggio di Cotrone, bianco come la calce e piccantissimo.

“La carne della trattoria è morbida, perchè è fradicia,” borbottava ancora Marianna, che voleva convertire quel padre e quel figliuolo impenitenti. “È tutto un pasticcio.”

Ma giusto quei pasticci piacevano ai due Joanna, quelle falsità, quel baccalà che fingeva di essere storione, quelle uova di tonno che fingevano di essere caviale, quelle creste di gallina che parevano funghi freschi, quelle costolette dall’osso posticcio. Quella incertezza, quel dubbio, quell’inganno li divertiva, li lusingava.

“Che pesce è questo?” domandò Paolo, tirando la sua parte da un grosso pesce bianchissimo.