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di malatina debole, Raffaela dicendo qualche paroletta vivace. E dopo un poco il rombo della macchina ricominciò. Riccardo si era ritirato in un angolo lontano, ma non toglieva gli occhi di dosso alla macchina. Sempre quel grande congegno nero, a ruote che s’ingranavano l’una nell’altra, a rulli neri e lucidi che andavano e venivano, con quel cilindro che si arrotolava sulle pagine, con quei telai semoventi, con quel fischio sottile dei fogli che scivolavano, quasi afferrati e divorati da quell’ingranaggio, quel macchinone rombante sempre lo meravigliava. Quando era al riposo, Riccardo vi si accostava, timidamente, toccava con la punta del ditino una ruota, poi si ritraeva, girava attorno alla macchina con una curiosità ansiosa; ma quando la macchina si metteva in moto, un timore, un rispetto lo faceva rinculare lontano. E nello stesso tempo egli invidiava Peppino, il ragazzo, e Ciccillo un altro ragazzo, che sedevano in cima ai due piani inclinati, sicuri, tranquilli, facendo scivolare i fogli di carta dentro la macchina, con un atto disinvolto, di operai avvezzi. Non tremavano essi, lassù, mentre la macchina si moveva tutta, con un rombo forte, sotto di loro; essi parevano due domatori della macchina, due trionfatori, due piccoli re. Riccardo li invidiava.