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una catastrofe. 345


“Andiamo,” disse Riccardo Joanna, crollando le spalle come se si liberasse di un peso.

“Pigliate la ricevuta!” disse il vecchietto dal suo stanzino.

“A che serve?” fece il direttore del Tempo.

“Per regolarità di amministrazione.”

“È ammalato l’amministratore.”

Il vecchietto ritornò con la ricevuta dall’inchiostro ancora fresco.

“Fatevi dare da questo vostro amico le trentamila lire, sor Riccardo.”

“Non le ha, sor Margari; a quest’ora me le avrebbe date.”

“E voi le avreste mangiate.”

“Non io, il Tempo; è il mio verme solitario, mangia tutto.”

Uscirono. Il facchino, nel cortile, già caricava le risme di carta del Tempo, per portarle in tipografia; e le sue nerborute spalle si piegavano sotto i colli che trasportava al carrettino. Stava la carta, rettangolare, avvolta nella sua fodera di cartone grosso, scuriccio, stava massiccia, fitta, elevantesi l’una dall’altra risma, come pietra fortissima di un edificio incrollabile. Il facchino compariva sulla porta del deposito, curvo in due sotto il peso delle risme, e trascinantesi a stento veniva a deporle,