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330 una catastrofe.

Amati era andato di là, sopra un tavolino tutto macchiato d’inchiostro: guardando la parte della stanzaccia nuda, tappezzata da una meschina carta da parati, si affannava a comporre il suo articolo. Ogni tanto, alzando il capo, si meravigliava che nessuno venisse: solo solo, in anticamera, Agabito mangiava un pezzo di pane, lungamente, scotendosi ogni tanto le molliche dalla giacchetta, con aria filosofica. Poi un ometto piccolo, unto e bisunto, venne a parlamentare sottovoce con Agabito, il quale lo ascoltava e crollava il capo: poi entrò nella cameruccia di Antonio Amati, e lasciò che sull’angolo della tavola, dove il neo—giornalista scriveva, l’ometto piccolo, unto e bisunto, scrivesse qualche cosa in certi suoi lunghi fogli di carta. Anzi, Antonio Amati prestò la sua penna, e aspettò che gliela rendessero. E Agabito lasciò i fogli sul tavolino, senza curarsene.

“Non li portate di là, al signor direttore?” domandò Antonio Amati.

“No,” fece il servo. “Tanto, quando vede carta bollata, non legge mai.”

“Ma la carta bollata si paga!”

“Mah!... ne abbiamo un fascio, e non ci dà nessun fastidio.”

“Pare a voi,” mormorò il neo—avvocato, tutto pensieroso.