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110 la grande giornata.

giasse ancora al Trevi, che non pagasse qualche tazza di birra agli amici. Qualcuno gli chiese in prestito cinquanta lire: un altro, più audace, gliene chiese duecento. Egli rifiutava: gli dicevano:

“Perchè non te le fai dare all’amministrazione del giornale?”

E lo tenevano per avaro, per egoista. In realtà egli soffriva della sua miseria, fortemente. Assopito nel cuore il dolore della morte di suo padre, sviluppata l’intelligenza dalle scorie che la rendevano inoperosa e la deturpavano, a venti anni, in una grande città come Roma, dove la vita già si disegnava a linee di capitale, il giovanotto cominciava a provare l’arsura di tutto quello che gli era conteso. Quando usciva di tipografia, alle sette, nell’ora in cui tutte le trattorie fiammeggiano di lumi e sono riboccanti di gente, mentre passeggiava lentamente, per sollevarsi dal lavoro, prima di pranzare, egli dava un profondo sguardo d’invidia alle trattorie dei ricchi, degli uomini felici, che mangiavano delle pietanze delicate in una porcellana elegante: e si rammentava di averle gustate, da bambino, quelle dolcezze, nei giorni in cui suo padre aveva denaro, quelle galanterie da palati viziati, il caviale, la ragosta, la pernice, lo storione, la beccaccia, le salse