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la grande giornata. 99

gabbiotto, preso dallo stento della sua inesperienza.

“Viene in tipografia a correggere la terza pagina?” chiese il piccolo.

“Vengo.”

Era lì presso, in Piazza Montecitorio. Il redattore capo, in uno stanzino, compilava un telegramma: un vecchio magro, una figura melanconica e romantica e simpatica da don Chisciotte, scriveva le informazioni dall’altra parte del tavolino. Non ci era posto per Riccardo: il proto gli accennò un leggío di legno, un seggiolone alto. Ivi, sotto la vampa del gas, Riccardo corresse la terza pagina. Non vi era altro da fare: se ne andò, senza salutare, insalutato, mentre redattori, proto, tipografi, macchinisti erano assorbiti da quel calore dell’ultima mezz’ora. Erano le sette: al Trevi non vi era più nessuno, le vivande erano scarse, gli impiegati che pranzano alle cinque e mezzo avevano consumato quasi tutto, Riccardo mangiò di pessimo umore. Al caffè, il Brandi, l’impiegato postale, gli chiese subito:

“Ebbene, vi è nulla di tuo nel Baiardo?

“No, non ancora.”

“Non farmi segreti,” ribattè l’altro, con la sua aria di volpe fina, “io me ne accorgo, sai, ti conosco allo stile: tutto possono insegnarmi