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90 la grande giornata.

tervallo fra una febbre e l’altra, lo teneva lo stordimento del chinino preso. Sperava assai di morire. Non lesse giornali per un mese e mezzo, volendo dimenticare. Ma in un’ora di debolezza, egli ne aperse uno, il solito, quello che amava. Leggeva, senza intendere, infiacchito dalla infermità e dalla esorbitante vita interiore. L’avviso con cui la direzione cercava un correttore lo fece trasalire. Poi si vergognò di sè stesso: certo la debolezza lo rendeva vigliacco, ora, gli consigliava una umiliazione troppo grande! Cercò di distrarsi, di non pensarvi: ma invano. E l’anima gli suggeriva transazioni: nessun lavoro era indecoroso, nessuna opera umile era da disprezzarsi. Che cosa era lui per tenersi così alto? un misero impiegato, alla fine, e il lavoro del ministero, poco diverso, era dunque anche una vigliaccheria? Invano, invano, il poveretto cercava di difendersi dalla tentazione, era inerme, era debole, era indifeso — e la tentazione nelle ore di convalescenza si faceva più viva, il desiderio di viver là, in un ufficio di giornale, si faceva sempre più pungente, sempre più forte: e gli pareva già di essere lì, fra quell’odore di polvere stantía, fra i fasci della carta bianca, innanzi a quei calamai profondi e melmosi, tenendo una di quelle penne grosse e corte, tutte morsicchiate alla