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glioni, che conduce alle due porte del monastero, la porta piccola e la grande. È un’ascensione lunga, dura e faticosa. Verso il Corso Vittorio Emanuele, la rampa ha un aspetto ancora civile e popoloso; come si passa nell’aspra viottola, si cade nel deserto e nel silenzio: solo qualche rara popolana, dalle chiome spettinate, dalle vesti a brandelli, mentre culla col piede il canestro dove dorme, per terra, un poppante ravvolto in luride fasce, sta sulla porta del suo tugurio e torce, fra due sedie sgangherate, lo spago, a matasse. Da quelle parti, un po’ più lontano, un po’ più vicino, erano, un tempo, le grotte degli spagari, antri quasi zingareschi, dove si accumulavano uomini e bestie, in uno stato quasi selvaggio: la piccola industria della filatura e della torcitura dello spago, ancora, in qualche stamberga di quelle, dà un po’ di pane a chi vuol lavorare.