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il fondo del suo essere, lo assaliva, novellamente, gli spezzava le forze fisiche e le morali. A passi lenti, oramai, si era messo sul marciapiede che rasenta il trottatoio della Villa e si trascinava lungo la ringhiera di ferro che difende i pedoni, alla mattina, dal trotto dei cavalli, su cui gli sportmen vanno e vengono, sotto le ombre dei grandi alberi del giardino pubblico. Di sera, alle nove e mezzo, non vi erano sportmen, ma il marciapiedi era ancora affollato, con la freschezza settembrina, con i profumi che venivano dai giardini di casa Colonna, di casa Alvarez de Toledo, del Vasto, di Monteleone. I suoi pensieri, in piazza Vittoria, avevan distrutto la sua esaltazione momentanea e, con essa, la sua momentanea forza. Camminava, sì, ma come un’ombra folle e vana, rallentando il passo, fermandosi, fissando gli occhi innanzi, ma senza vedere nulla, respinto spesso da chi gli passava accanto, respinto a diritta, a sinistra, sorpreso, costantemente, dal passaggio filante e rumoreggiante dei trams pieni zeppi di donne e di uomini, che tornavano da Posillipo, dalla Torretta, trasalendo a ogni volto femminile che gli appariva, e non osando neppure fissarlo bene, quasi avendo paura, oramai, d’incontrare sua moglie, chiedendo a sè stesso perchè non fosse restato, laggiù, nella solinga casa di via Donnalbina, ad aspettarla, come essa gli aveva ingiunto, perchè non le avesse ubbidito, senza discutere, anche a costo di soffrire le più acute torture, poichè il suo destino, oramai, era di vivere e di