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inventa, forse. Si pianta ritto innanzi a voi, concentrato, guardandosi la punta delle scarpe, coll’indice appuntato all’angolo delle labbra, e vi dice sottovoce, come se parlasse a sè stesso, la fiaba, la leggenda. Ogni tanto si degna benignamente di spiegarvi qualche particolare — perchè l’orco, alle volte, è buono — perchè quella era proprio una buona ragazza — e continua, allargando i confini del racconto, inventando, fantasticando, come se creasse. Se lo interrompete, si turba, vi dà un’occhiata fra il diffidente e il severo: ricomincia, senza badare a quello che gli avete chiesto. Quello che abbonda in lui è una immaginazione quasi orientale, piena di sogni: è una virilità di volontà inflessibile. Egli vi dice: imparerò a nuotare l’anno venturo, quando sarò proprio un uomo. È il più piccolo fra i due fratellini: ma il più grande, Paolo, è un bambinone biondo e grassoccio, bianco, roseo e liscio come una mela, dagli occhi azzurri e timidi, che parla poco, sorride spesso e se ne sta, placido, placido,