cuccia rimane ancora infantile, labbrucce fresche e rosate, tutte ingenue, senza sapienza di sorriso, che si gonfiano ancora per una stizza, per fare il broncio, per piangere. La voce fiorisce lenta ed espressiva con qualche intonazione bassa di malinconia: una voce che pensa, parlando. Più volentieri ella ascolta, con la testolina reclinata, gli occhi intenti e ombreggiati dalle ricche ciglia castane, la bocca schiusa. Si lascia andare, stancamente affettuosa, con la testa appoggiata sul petto della madre o del padre, le mani pendenti lungo lo strano abito tonaca dell’adolescenza che ha qualche cosa di misticamente bizantino, nelle sue linee diritte. Ella ama tutte le cose di pensiero e d’immaginazione: le lunghe letture in un cantuccio di salotto l’attraggono irresistibilmente, una conversazione letteraria l’assorbisce, la contemplazione di un quadro se la prende tutta. Una sera la fantasmagoria del ballo Excelsior la inebriò; un giorno, a Venezia, sulla piazzetta di S. Marco, ella si mise a supplicare suo padre, con le lagrime