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— La «messa prima» è tua, Giulio?

— Sì, caro....

— Vuoi che te la serva io? Per l’ultima volta, in Roma, tu dici messa e io te la servo? Per salutarci meglio, Giulio, ora che ci separiamo? Per salutare Santa Maria degli Angeli?

Era velata di affetto e di malinconia la voce del soldato in grigio verde, che del suo stato sacerdotale non conservava più, nei suoi lucidi capelli, che la rotonda tonsura.

— Oh Luigi, Luigi, fratello mio! — balbettò don Giulio Lanfranchi, fremente di commozione.

— Vatti a vestire, va, anima bella.... È l’ora: Franceschino ti fa segno: va....

Raccolto assolutamente nella sua vita interiore compreso di reverenza per l’ufficio di fede e di religiosa pietà, che andava a compiere sull’altare, portando appoggiato al petto, con mani delicate e ferme il Sacro ciborio, come un prezioso tesoro, mai quest’officiante, venendo dalla sacristia, avviandosi all’altare, ascendendone i gradini, si volgea verso i pochi o i molti osservanti, che erano in chiesa, mai egli cercava di conoscerne il numero, o di distinguerne le persone. Egli era preso, tutto, dal suo sacro ufficio e niuna cosa, e niuna persona, ne lo poteano distrarre: la compunzione del suo pallido viso, lo sguardo senza meta dei suoi occhi, pure intenti in un pensiero dominante, ogni suo gesto divoto erano di una perfetta dedizione e di una perfetta sincerità. Così, quel giorno in quella primissima ora mattinale, in quella «messa prima» di Santa Maria degli Angeli, l’officiante, nei suoi ricchi paramenti sacri, fine tela bianca, antichi e preziosi merletti, broccati lucenti e smaglianti galloni di oro, quest’officiante, col suo