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— Non dubitate.... non dubitate....

Tacquero. Il sacrestano si allontanò verso il banco, vi passò dietro, ricominciò la sua opera, andando, venendo, senza rumore, con quei gesti misurati e discreti della gente di chiesa. Don Giulio Lanfranchi andò a sedersi in uno dei neri stalli, e stette tranquillo e muto, avvolto nel suo ferraiuolo nero, poichè egli continuava ad aver freddo, per la notte insonne, per quella prima ora gelida, in quell’ambiente bruno di marmi, di legni, di pitture. Quasi spariva, la sua piccola persona, in quello stallo: e solo sul legno bruno, spiccava il suo volto chiaro, sotto la linea sottile dei neri capelli. Malgrado che la luce mattinale crescesse, l’aria della vasta e tetra sacristia rimaneva senza riflessi, come se nulla potesse mai diradarne il bigio colore, nulla muoverne le onde ferme. Gli alti finestroni illuminavano solo la parte superiore della sacristia: ma i vetri istoriati non filtravano grande luce. La testa di don Giulio Lanfranchi si curvava sul petto, mentre, laggiù, il sacrestano, badava ai suoi paramenti sacri, uno disposto dopo l’altro, in bell’ordine, badava alle sue ampolline, si curvava sugli scaffali dei negri armadii, mezzo nascosto nel vano. A scuotere il suo pesante torpore, don Giulio Lanfranchi cavò dalla tasca un libro di religione, piccolo, legato di pelle nera, con una croce di oro, sopra: e tentò di leggere in quella sua Imitazione di Cristo, la cui rude, severa, talvolta terribile parola, egli sentiva così spesso necessaria alla sua troppo snervante tristezza. Ma non distingueva le parole, in quell’aria grigia: e il libro restò schiuso nella sua mano, che pendeva dal bracciuolo di legno dello stallo. Franceschino gli passò davanti, tornando dalla chiesa, dove era andato per qualche incombenza.

— Vi sarà qualcuno, per servire questa messa? — cinese, vagamente, il giovine sacerdote.

— Sì... sì... vi è sempre qualcuno. In chiesa già si prega... Ora vedrete giungere qualche divoto, per voi.