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tocco di mano bruciante, niente altro. Carezza, saluto? Poi, passò oltre, Loreta, senza dir motto: entrò nella sua stanza: ne rinchiuse pianamente la porta. Anche la luce della lampada fu da lei spenta. E la madre, infine, nascose il suo viso fra le mani e potette sciogliersi in lacrime, colà, sullo scalino, come una mendicante.


— Pupo mio, pupetto mio, su, su, fa una risatina a papà tuo — e curvo sulla culla di legno, che era collocata presso il gran letto coniugale, Cesare Pietrangeli solleticò delicatamente, col suo grosso indice, il mento del suo figliuoletto.

Non solo aliò, sul rotondo viso dell’infante, il lieve, sparente sorriso puerile: ma il piccino agitò i piedini che erano già liberi delle fasce, nei calzerotti, e tese le manine socchiuse, al padre.

— Sempre mi conosce, sempre mi riconosce il pupetto mio... E vieni, vieni, su, a papà tuo, Augustarello mio...

Con le larghe mani rossastre egli sollevò, su, dalla culla, il figliuoletto, se lo mise in collo ed esci dalla stanza da letto. Mariuccia, sua moglie, lo segui, passo, passo, in silenzio, con la sua cera fra noiata e triste. La testina senza cuffia di Augustarello, con un ciuffetto di capelli scuri sulla fronte un po’ bassa, era poggiata al collo robusto del giornalaio: e così, dappresso, i due visi, quello del padre, largo viso, acceso, dagli occhi a fior di testa, dalle labbra grosse come gonfie, sotto i mustacchi tagliati corti e il viso del bimbetto, tondo tondo, già molto colorito, con un nasetto un po’ rincagnato e una boccuccia, schiusa un po’ di sghimbescio, questi due visi si rassomigliavano molto. Nella modesta stanza da pranzo, che era quella ove si tratteneva la famiglia Pietrangeli, erano ancora raccolti gli altri figliuoli, malgrado