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suo animo pervaso da un dolore così di lei più forte, nessun potere divino o umano. Di fronte alla porta aperta della camera di Loreta, cominciava la scala di legno scolpito, che conduceva al pianterreno e da cui era discesa, per fuggire, Loreta: un tappeto rosso e morbido ne covriva gli scalini di legno. Carolina si sedette sul primo scalino e appoggiò la testa alla balaustra di legno, a piloni, che cingeva la scala. Colà, raggricchiata come una inferma, come una mendica, quasi diminuita, stette, immota, fra la stanza vuota e la scala donde era fuggita Loreta.

Tutta la notte trascorse, così, mentre Carolina Leoni, sedeva, lì confitta, raccolte sempre più in sè le membra tremanti di freddo, con una sonnolenza che le scendeva sul capo e sul corpo, e il capo le si abbassava sul petto, scotendosi ogni tanto, trasalendo, sino a che i primi lividi chiarori dell’alba si diffusero nell’ombra della casa silente. Fu allora che Carolina udì, ancora, come un colpo battere sul suo cuore tramortito e ogni nebbia sparire dalla sua mente.

Un’ombra nera ascendeva le scale: pendeva dalle sue alte spalle la serica cappa nera che, quasi, si trascinava sul tappeto: e la sciarpa nera che ne avvolgeva la testa, era sciolta, sui capelli disfatti e sul collo. Rientrava, Loreta, con un passo che appena sfiorava il tappeto: e guardava innanzi a sè, verso la meta, verso la sua stanza, dalla porta aperta e dalla luce accesa. Non si accorse, Loreta, di colei che era seduta sullo scalino, come una pezzente alla porta di una chiesa: i grandi occhi della fanciulla sembravano quelli di una sonnambula. Udì, però, una fioca voce chiamarla a nome, da terra, e una mano fermarle il lembo del cadente mantello:

— Loreta, Loreta... — fu la voce materna.

Si gittò indietro, bruscamente, la figliuola, come se le fosse apparso uno spettro: e il suo viso marmoreo, impallidì e arrossì, ai crescenti chiarori dell’alba. Si curvò, Loreta, verso sua madre e con una mano le toccò i capelli discinti: un lieve