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sava al dove, non pensava al chi, non pensava al che cosa, ma ricominciava, lì, per terra, a rifare la figura nobile e pura di sua figlia, quale essa l’aveva vista crescere e fiorire, puro e nobile fiore di sua casa, unico fiore della sua grama vita... Ah certo, certo, era stato un sogno atroce, un sogno turpe, che le era passato innanzi, mostrandole la fuga di Loreta, nella notte alta: e bastava che ella si levasse di terra e andasse alla stanza di Loreta, per trovare la figliuola, il suo fiore di nobiltà e di purezza, a cui ella non aveva dato esempio che di virtù, nella lunga e casta vedovanza, per trovarla, levata o coricata, dormiente o insonne, là, nella sua camera di fanciulla, nella sua custodia, ove, tante volte, l’aveva vista dormire, il più innocente fra i sonni...

Provò a sollevarsi di terra: ma tutte le ossa le dolevano: una singolare debolezza aveva disperso le sue forze fisiche: sospirò, attese; e il suo spirito e gli occhi della sua mente si volgevano, nell’attesa, verso quella camera di Loreta, con un sempre più acuto desiderio di ritrovare la sua creatura, il suo purissimo gioiello, il suo purissimo fiore. Potette alzarsi, infine: e chiuse il balcone donde aveva visto o, forse, pensava, aveva sognato la fulminea scena: e con passo incerto, affranta da non so quale enorme fatica, traversò l’appartamento, di cui, andava, man mano, accendendo la luce elettrica: ma come si avvicinava alla camera di Loreta, il suo passo si rallentava: e si dileguava, stranamente, dal suo animo, la certezza, prima, la speranza, poi, di ritrovare la sua figliuola, insonne o dormiente.

Così, quando vi fu arrivata e ne scorse la porta spalancata e la luce illuminante la camera vuota, Carolina Leoni, non ebbe un sussulto, non diede un grido, non versò una lacrima. Ella si lasciò penetrare e invadere da un dolore, mille volte più forte di quello provato sul balcone di via Abruzzi: ma non oppose resistenza: non chiese soccorso: non chiamò alcuno: non invocò, nel segreto del