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cone chiuso della sua stanza, che dava su via Abruzzi, lo schiuse bruscamente, si affacciò e vide. Sì, vide, laggiù, all’angolo della via, il lume rosso di un’automobile ferma, e udì stridere il cancello della villa, e una figura femminile, vestita di nero, escirne, traversare la via, rapidissimamente, entrare nell’automobile già rombante, e sparire, sparire, mentre solo allora Carolina Leoni ritrovò la forza di gridare, tendendo le braccia verso la strada deserta, nell’ombra notturna, nel silenzio notturno.
— Loreta, Loreta, Loreta!
Vacillò, roteò, su sè stessa, lentamente, come in preda a una lenta vertigine, cadde a terra, semiviva, come una povera piccola forma umana. Nè seppe, Carolina Leoni, quando venne riprendendo i sensi, ma non le forze, giacente sul tappeto della sua stanza, quanto tempo della notte fosse trascorso. Poichè il balcone era restato aperto ed ella giaceva quasi sulla soglia, l’aria frizzante aveva rianimato la povera donna e la conoscenza le ritornava e, con essa, risaliva al sommo della sua anima travagliata, la sua acuta pena. Pensò che tutto quanto era accaduto, fosse un’allucinazione della sua fantasia, nutrita di angoscia: e che la voce misteriosa, la spinta ignota, il balcone aperto, l’automobile fermo, in aspettativa, e l’alta, nera figura di donna, fuggente dal cancello schiuso verso l’automobile, e la sparizione della persona e del veicolo, tutto, tutto fosse creato dal suo travaglio e dalla sua immaginazione. No, non poteva, essa, Loreta Leoni, la sua altiera figlia, sempre ammantata di superbia, sempre fasciata di una invisibile corazza, che la difendeva da ogni contatto volgare, sempre distante da ogni peccato comune e da ogni comune debolezza, una creatura d’orgoglio, sì, ma incontaminata, ma intatta, non aveva potuto fuggire dal tetto familiare, di notte, ingannando sua madre, mentendo a sua madre, andando, sola, chi sa dove... chi sa da chi... E, qui, straziata, la madre si fermava, non andava più oltre, non pen-