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— No, non viene. E neanche domani sera, mamma. Nessuna sera, più.

Parlava, Loreta, pacatamente; e nessuna espressione si delineava sul suo viso bello e impenetrabile.

— Come mai, Loreta? Che dici?

— Parte domattina, per il fronte, Carletto.

— Così, improvvisamente? È possibile?

— Non tanto improvvisamente, mamma. Sai che l’ordine si aspettava, da un giorno all’altro.

— Ed è venuto?

— Sì. È venuto. Oggi, per domattina.

— Oh Dio! — esclamò, angosciata, la madre.

Sempre quieta aveva parlato, la figliuola, senza che un muscolo della sua fisonomia indicasse la sua pena, mentre l’ingenuo dolore di Carolina si scorgeva nella faccia e si udiva nella voce tremula.

— Non sapevi, Loreta, tutto questo?

— Lo sapevo. Ho sempre saputo tutto, mamma.

— Figlia mia cara... — disse la madre, tendendole una mano, quasi per sostenerla, quasi per carezzarla. Ma Loreta non parve scorgere il tenero gesto.

— E egli non viene, Loreta, a prendere congedo?

— Non viene, mamma; preferisce non venire... — e, a un tratto, ella aggrottò le ciglia, e tutto fu oscuro, nel suo viso e nelle sue parole.

— E tu, figlia mia, e tu? — chiese ansiosa la madre.

— Preferisco, anche io — disse, seccamente, Loreta.

— Non vi saluterete, figlia mia?

— No — e volse, in là, la faccia.

— ... non soffrirete..., non soffrirete anche più, non congedandovi? — osservò, timidamente, la madre.

— È imposibile, mamma, soffrire più di quello che soffriamo — disse la figliuola, con un tono più insofferente che triste.