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calde ancora e gli bruciavano gli occhi. Senza sonno, erano gli occhi, sempre spalancati sulle tenebre notturne; mentre quelli del suo spirito agitato vedevano, sì, vedevano la truce, feroce, devastante figura della guerra, con ruscelli, con torrenti, con fiumi di sangue, e le terre, e i campi, e le valli, coperte di uccisi, tutti giovani... Un profondo, lacerante sospiro, quasi una parola senza sillaba, di disperazione, parve gli squarciasse il petto, giunse sino alla dormiente, ne scosse il placido sonno.
— Che è, Camillo.... che è?
— Niente. Dormi.
Ella si voltò dall’altro lato; si riaddormentò. E dagli occhi brucianti di Camillo Moles sgorgarono lunghe e silenziose lacrime, discesero sulle calde guancie, gli bagnarono le mani congiunte sulle coltri. Solo, nella notte fonda, l’uomo piangeva di sdegno, di ribrezzo e di pietà, sul suo domani di sangue e di morte, invocando, da Dio, cui solamente in quell’istante tragico si dirigeva, la propria morte, subito, prima che la spettacolo atroce del sangue e della morte altrui, gli apparisse. Così, pregò confusamente, sino all’alba. Così salutò, bruscamente, la donna sonnolenta e balbettante: così si avviò solo, nella livida alba, sperando di morire, per non uccidere, sperando di morire per liberarsi.
Lesse quella lettera Loreta Leoni, con una perfetta calma; la rilesse, la ripose nella sua busta, la tenne in mano, sogguardandola, ogni tanto. Seduta poco lontana da lei, sua madre, Carolina Leoni, aveva seguito ogni movimento della figliuola, senza nulla chiederle.
— Mamma, Carletto mi ha scritto.
— Oh! Non viene, questa sera?