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— Cantavi; e io debbo partire, per uccidere o per morire! Terrore, orrore di questo mio infame destino!

— Perdono, perdono, perdono, a Barberina tua! E Camillo le perdonò, ancora una volta.

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— Buona notte — la donna gli augurò, piano rilevandosi i capelli scompigliati, dopo la lunga e violenta ora di amore.

— Buona notte — rispose l’uomo, stanco, sfinito, esausto.

— Svegliami, sai, caro, domattina, non importa che sia presto... svegliami. Buona notte.

E mettendogli la testina sulla spalla, con la sua fresca guancia sul petto, la donna si addormentò subito, come sempre, dopo l’ora di amore; un respiro piccolo ed eguale, esciva dalle labbra rotonde, schiuse sui denti bianchi. Non dormiva Camillo Moles; tutto il suo corpo bruciava ancora del precipitoso calore dei sensi, e il sangue gli rombava, cupo, nelle orecchie; ed egli udiva il battito delle sue più piccole vene. Non dormiva. Lentamente, il suo pensiero che era naufragato nell’ora di amore, si risollevava dal fondo oscuro ove era sommerso, e si precisava, e lo riconduceva alla realtà di quell’ultima notte, alla realtà di quell’indomani, che gli era sopra. Tutto lo spasimo morale di cui soffriva, da che il fantasma della guerra gli era apparso, e che ogni giorno era sempre più diventato una cosa viva, minacciosa, sinistra, questo spasimo lo attanagliò ferocemente. Pesava la testa della donna, sulla sua spalla, sul suo petto; il peso, gli sembrava crescesse, non lo facesse più respirare. Si disgustò di quel contatto, di quella carne; con gesti cauti, tentò di liberarsene, a poco, a poco. Ella, nel sonno, si ritrasse, lo liberò, affondò la testa nell’origliere, senza svegliarsi; respiro calmo, eguale, di carne sazia e quieta. Camillo si era levato sull’origliere; il suo corpo si raffreddava; si allontanava il rombo del sangue; solo le guancie erano