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Aveva abbassato gli occhi, il diciassettenne e stava assorto, o, forse, esitava a continuare. Ma il suo animo aveva, già, una forza segreta che lo sospingeva.

— Madre cara — egli riprese, mentre la sua mano bianca e fine, tastava qualche oggetto, sulla scrivania — queste parole sono state pronunciate da Fausto, il mio grande fratello, in un sermone di propaganda, a Torino. Non sono sue: ma egli le ha svolte e difese, ed esaltate.

E vide, vide bene, vide perfettamente Giorgio, la faccia materna contrarsi in una disperazione così violenta, che essa non poteva dissimularla.

— Il mio grande fratello ha suscitato l’entusiasmo della folla, madre cara... — egli soggiunse, pensoso, ma insistente.

La madre aveva, per un istante, nascosto la faccia fra le mani: ma vi restava impresso uno strazio senza fine.

— Tu soffri, è vero, mamma? — e la guardava, con occhi filiali.

— Ah sì, sì, soffro, soffro, Giorgio! — ella gridò, nella esasperazione della sua pena: e si morse le labbra, per punirsi di quel grido incomposto.

— È Fausto, madre mia, che ti fa soffrire?

— È Fausto. Egli mi ha chiesto di soffrire per lui; e io ho accettato.

— Povera madre grande nostra! — egli disse, sogguardandola, amoroso. — Tu hai, madre, orrore della guerra?

— Orrore, Giorgio: orrore.

— Fausto ne parla come di una legge del Signore.

— No, Giorgio... No!

— Egli è in buona fede, madre. È un’anima di bellezza e di bontà, Fausto.

— Ah questa è la mia disperazione! — ella disse, con voce roca di dolore.

Un pesante silenzio, fra i due. Allora Giorgio si avvicinò alla madre, sedendosele vicino, le prese una mano, la carezzò infantilmente, ne baciò, a una a una, le dita che l’età già deformava.