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l’altro angolo della scrivania, ove Giorgio aveva, fino allora, tenuto gli occhi fissi sovra un libro: e ove tante ore tacite e quiete serali, il diciassettenne aveva trascorse, presso sua madre. Quella così vasta stanza da studio di Fausto Ardore, il maggior fratello, era molto severamente mobiliata, coi suoi alti scaffali di quercia scolpita, carichi di libri, coi suoi tendaggi di un verde cupo, con i suoi sofà e le sue poltrone di cuoio verde bruno, con la sua immensa scrivania, coverta di volumi, di riviste, di pacchi di lettere: qua e là, qualche bronzo, qualche porcellana, qualche avorio, mettevano un chiarore leggiadro nell’austerità di quella stanza da lavoro, ove Fausto Ardore, per tant’anni, aveva trascorso le ore più fruttuose, pel suo spirito studioso e operoso. E, così, alla madre grave e pensosa, quella stanza era molto cara, per le sue ore serali solinghe: Marta Ardore vi finiva, così, in calma e in silenzio, la sua buona giornata. Giorgio Ardore, il più giovane figlio, il diciassettene, dai capelli castani a fulvi riflessi, ricciuti come quelli del san Giovannino fiorentino, dagli occhi puri ove brillavano, insieme, il talento e la dolcezza, vi raggiungeva volentieri sua madre e volentieri vi si tratteneva, in quella sua serenità giovanile, che non era spensieratezza, ma equilibrio morale e fisico di tutte le sue semplici forze virili, che si sviluppavano in armonia. Vi era, in quello studio, in un angolo, coverto da una stoffa antica di un viola smorto ove correva qualche filo d’oro, vi era il pianoforte: e se esso, da anni, non era toccato dalle mani di Marta Ardore, il giovinetto lo prediligeva, traendone, spesso, antiche melodie e ritmi leggieri di danze. Quasi sentendo sul suo bel volto bianco, nutritogli buon sangue, lo sguardo materno, Giorgio aveva posato il libro aperto, sulla scrivania, e tirata una seconda sigaretta dal portasigarette, l’aveva accesa.

— Questa sera non esci, Giorgio?

— No, mamma, non esco — e seguiva con l’occhio sognante, in aria, le piccole volute del fumo.