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Nell’anticamera, presso la porta di entrata, socchiusa, Genoveffa ascoltava colui che le parlava, sommessamente. Ella aveva portato allo zio e al nipote i giornali della sera, che, subito, Guido Soria, aveva cominciato a leggere, con voce sonora, a suo nonno. Ora, tornata in anticamera, dove l’aveva attesa, nel vano della porta, Cesare Pietrangeli, il giornalaio che aveva il suo chiosco di giornali, all’angolo fra via Veneto e Porta Pinciana.
La donna, silenziosa, attenta, seguiva il discorso dell’uomo, che era fatto di parole rapide e concitate, ma con un tono basso; ogni tanto l’uomo scuoteva il grosso capo, in atto di sconforto, ogni tanto egli segnava la sua frase, con un gesto di sconforto della larga mano rossastra. Cesare Pietrangeli era un popolano basso, atticciato, con un largo viso coloritissimo, vestito decentemente, con una grossa catena d’oro, che gli traversava il panciotto; si scorgeva che egli moderava, a stento, la sua voce, mentre il viso esprimeva una pena grande, ma semplice, quasi ingenua. Taceva la prudente Genoveffa; a occhi bassi, acconsentiva, talvolta, col capo, e un velo di malinconica, ingenua compassione era nei suoi cenni, in qualche breve parola, pronunciata come un soffio. Sogguardava, allora, ogni tanto, verso le stanze di don Francesco, quasi temesse di essere chiamata e di non udire, o che, forse, potesse giungere, colà, la voce invano repressa di Cesare Pietrangeli. In questo, sopraggiunse don Giulio Lanfranchi, che si era congedato, quasi inavvertito, dal nonno, dal nipote; col suo passo leggiero, piccola ombra nera, stringendo sul petto il cappello pretino, si dirigeva all’uscita. Egli salutò Genoveffa e fece per uscire; ma gli si parò avanti il popolano romano, che fermò il piccolo prete, al passaggio toccandogli la mano, come per baciarla.
— Che mi dice, reverendo mio, di questa gran disgrazia? — e la tristezza