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Ma nel rientrare col vassoio del the, Genoveffa non era sola. Un’ombra nera e lieve, la seguiva, a passi discreti.
— Eccellenza, ecco il nostro don Giulio...
Il giovane prete, don Giulio Lanfranchi, si accostò al seggiolone, toccò la mano scarna di don Francesco Soria, distesa sul bracciuolo, con un gesto di rispetta e di affetto, prese la sedia che Genoveffa gli porgeva e si sedette vicinissimo all’ottantenne.
— Bravo, bravo, Giulietto, ti si rivede — esclamò, lieto, il vecchio sorridendo di un sorriso, che dalle smorte labbra appassite, si distendeva in tutte le rughe del volto. — Tu non te ne dimentichi, del tuo vegliardo, come si dice in poesia... Tu devi fare il prete, si sa: ma mi vieni a cercare, ogni tanto...
— Debbo fare il prete, don Francesco, perchè la vostra bontà me lo ha permesso — rispose il giovine sacerdote, con la sua voce esile, che pareva, quella sera, anzi, più languida. — Ma il mio cuore qui mi conduce... come ad un padre. — E la esile voce tremò, un istante.
— Vuoi una tazza di thè, Giulietto? Con un biscotto? Genoveffa ti dà anche il biscotto, figlio mio...
— No, vi ringrazio, don Francesco.
— Che cerimonie son queste, Giulietto? pro testò, vivamente il vecchio. — Su, su, prendi questo buon thè!...
— Non posso, stassera... faccio un piccolo digiuno...
— Un digiuno?
— ...non ho pranzato neppure: pranzo domani sera — mormorò, come fra sè, il giovine prete.
— È tempo di digiuno, per voi?
— No, don Francesco, non è tempo. Digiuno io, così, per una divozione mia — concluse, piano, il pretino, abbassando i suoi occhi azzurri, che fiorivano come due pervinche, sul pallido volto gentile.
— Ma tu ci vai morto di fame, in paradiso, Giulietto! Perchè fai tanto? Il tuo monsignor Morcaldi