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— Sono triste — egli si decise a rispondere. E come se questa confessione gli avesse lacerata l’anima, la sua fisonomia si sconvolse.

— Perchè, sei triste? — insistette, stupita, la moglie. — Che ti accade? Che ragione hai, tu, di esser triste? Nessuna ragione!

E in un frivolissimo coro di proteste, le donne, gli uomini, attorno a lui, ripetettero:

— Perchè esser triste? Che ragione vi è, di esser triste?

Allora a un tratto, l’uomo sempre silenzioso e distante da quella società mondana, l’uomo che non levava mai la voce, fra quei mondani, proruppe, concitato:

— Ma voi altri, miei signori, non udite, non vedete, non sapete, che ci siamo? Questa estrema sciagura, che piomba su noi, che ci travolgerà, domani, non vi fa nulla? Nulla vi fa?

E gli tremava la voce come gli tremavano le mani, a lui, Camillo Moles, l’uomo serio, saldo e sereno. Al grido che era sgorgato da quell’anima trafitta, gli altri compresero. Qualcuno di essi aderì, con un cenno del capo un po’ triste, un po’ rassegnato, cenno fatto quasi per esteriore cortesia, verso il padron di casa; qualcuno ebbe l’aria di pensarci, su un istante e, dopo, sorrise, come a un suo segreto divisamento; qualcuno ebbe una lieve stretta di spalle, pur prendendo un’aria compunta, sempre per compiacenza verso Camillo Moles. E nella insensibilità di tutti, il ritornello ricominciò:

Vous êtes pacifiste, monsieur Moles: mais mon pays est neutre — disse don Manuel Peralta, gelido e compito.

— Poichè era necessaria, questa guerra, inutile protestare — dichiarò, con voce incolore, Franco Gaita, che aveva quarantacinque anni e non dovea servire, togliendosi il monocolo, pulendolo con un fine fazzoletto di battista, e ricollocandolo nell’orbita.

— Non durerà che tre mesi — affermò con