Pagina:Serao - Mors tua.djvu/34


26

musica canagliesca, che nel compassato tango, più stretti nei giri bizzarri di quella danza di altri tempi. La suonatrice, la cantatrice pareva invasa dalla sua musica: Mario Falcone dimenticava di voltare le pagine del fascicoletto, ma non era necessario ed egli era inchiodato a quel posto: e le ultime parole Barbara le diresse a lui, senza scorno, follemente, per sconvolgerlo: J’aime ta casquette, tes deux rouflaquettes — Ton bout de mégot...

— Da capo..., — pregò la prima coppia, senza disciogliersi.

— Da capo..., — pregò la seconda coppia, con voce fievole.

— Ricominciamo... per imparare — pregò la terza coppia.

— La Java, la Java la vieille mazurka, du vieux Sebasto! — strillò Barbara Moles, come ebbra e ricominciò a suonare, a cantare. Più stretti, più congiunti, oramai esperti, i danzatori ondeggiavano nei giri, in cui singolarmente non si urtavano, assorti e conquistati.

— Che suona, che canta, Barbara? Una turpitudine?— mormorò Camillo Moles a sua sorella, con una voce ove si mescolava l’ira all’ambascia.

Egli era scivolato, più che entrato, nella sua casa, nel suo salotto; nessuno si era accorto di lui, salvo il compitissimo don Manuel Peralta, che gli aveva rivolto un sorriso di saluto, da lontano, con un cenno del capo: e salvo sua sorella Magda, che gli aveva toccato affettuosamente una mano, per salutarlo, mentre egli le si sedeva accanto. Vicini, la loro rassomiglianza diventava impressionante. Camillo Moles era sformato di corpo; di media statura, aveva un torace grosso e lungo, aveva due esili e corte gambe. Ma questa deformazione era in lui più evidente, rivelata dai panni maschili; egli aveva il medesimo viso di sua sorella, scolorito, scialbo, dai tratti indistinti, gli stessi capelli di una opaca tinta castana, diventati già radi sulla fronte, a trentasei anni, la identica larga bocca dalle lab-