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Pepita, e seguitò, in ispagnuolo, nella lingua soave ed ardente, in cui era stata composta la romanza, che veniva di Spagna, che parlava di rose, di amore, di lacrime e del Guadalquivir; seguitò, pronunciando lo spagnuolo con una grazia e un languore seducenti, sogguardando don Manuel. Quando ad un tratto, una mano d’uomo le si posò duramente sulla spalla, un viso d’uomo giovine, biondo, di un biondo vivo, si curvò su lei e una voce aspra ma sommessa, le disse:
— La vuoi finire, perdio, Barbara, di cantare in ispagnuolo?
Ella si voltò, vivamente, non suonò più, finì di cantare, arrossì, come di piacere, impallidì come di gioia, si alzò, tese le due mani all’uomo biondo:
— Oh Mario, eccoti qua.... sempre in collera, con la tua cognatina.
I due erano uno di fronte all’altro, nel mezzo della sala, fissandosi, lui, Mario Falcone, alto, di snella statura, curvando verso sua cognata Barbara Moles, il suo viso dalla linee fini e nette, dagli occhi del color dell’acciaio, dalla bocca rossa, sinuosa, sotto i molli mustacchi biondi; ella ritta, col capo levato, sorridendo con gli occhi, con la bocca, al bellissimo parente, obbliosi, ambedue, di chi li circondava. E gli altri, poi, si erano formati a coppia, a discorrere, mentre solo don Manuel nel suo angolo un po’ remoto, sceglieva, ad occhi bassi, con lentezza, una sigaretta, dal suo portasigarette d’oro, prendeva un fiammifero dal portacerini d’oro, accendeva la sigaretta, fumava, a occhi bassi.
— Non cantare più in ispagnuolo... — disse, pianissimo, ma con voce fremente di collera, Mario Falcone; — caccia questo spagnuolo di casa tua.
— Mario, Mario... lasciami fare... — rispose, pianissimo, Barbara Moles, scuotendo il capo.
— Debbo ucciderlo, il tuo spagnuolo? Io lo uccido, uno di questi giorni... — e l’uomo non conteneva più la sua voce, nella minaccia della gelosia.