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mute labbra pronunziano, certo, una preghiera: la fanciulla si distacca, va a gittare le braccia al collo di suo padre, che la bacia sui lievi e folti capelli castani. E pensando al suo fidanzato aviatore, che corse cento pericoli e che, ora, è salvo, ancora ella grida, raggiante:

— Armistizio... Armistizio... Armistizio!

Ecco: nelle stanze vicine, a destra, a sinistra, dirimpetto, che sembravano, prima, avvolte nel silenzio, si ode sorgere rumore di passi affrettati, di sedie smosse, e si schiudono e si richiudono, vivamente, le porte: e il lungo, silente corridoio, è, a un tratto, percorso da persone che vanno, che vengono, frettolose, impazienti, viaggiatori, camerieri, facchini, che s’incontrano, che si fermano un istante, s’interrogano, esclamano, e dalle porte socchiuse o spalancate, viene un confuso groviglio di parole, su cui spiccano, costanti, eguali, sempre quelle, più alte, più basse, allegre, vibranti, le sole che ogni voce ripete, sovra tutte le altre:

— La Germania... l’armistizio... l’armistizio...

Dalle camere più lontane, ove, forse, giace un viaggiatore infermo e dimenticato, squilla, a distesa, il campanello, a cui nessuno bada; nella cabina, ove è chiuso il telefono, su quel piano, stride, stride, il campanello di richiamo: l’ascensore sale, scende, quasi precipitosamente, da tutti i piani, col suo sordo e monotono fragore: sulle porte interne delle camere, che le separano, una dall’altra, qualcuno batte, con le nocche delle dita, sul legno, chiamando il suo vicino, che non conosce, e il vicino risponde, subito, allo sconosciuto, con voce sonante, a traverso la porta chiusa, e il dialogo è corto, impetuoso, quasi violento:

— La Germania... l’armistizio!

— Certo?

— Certissimo!

— Ufficiale?

— Ufficialissimo!

E il viaggiatore ignoto grida, contro il legno della porta serrata: