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— Benedetto — rispose teneramente, Marta Ardore.

Improvviso silenzio: improvvisa calma: lungo pensiero. Il tempo scorre, gli occhi materni s’incontrano con quelli del figlio: e la inconsolabile malinconia dell’uno assorbe e riflette quella dell’altro. — Uniti: e divisi: e lontani: come mai, lontani.

— Mamma cara, tu mi vuoi bene? — egli rompe, ad un tratto, in silenzio.

— Io ti voglio bene, Fausto.

— Come il primo giorno, in cui ti nacqui?

— Molto più: molto più.

— Mamma, di’, di’, ho io mai peccato contro te?

— Mai, figlio mio, hai peccato contro me....

— Sono stato, dopo la morte di papà, amoroso per Giorgio?

— Più di un fratello: come un giovine padre, Fausto.

— Grazie, mamma, grazie — egli disse, pensoso, Dunque, io non ti ho mai dato nessun dolore?

— Mai, Fausto.

— Questo è, adunque, il primo?

— È il primo: ma è fortissimo, insopportabile.

— Madre mia, egli disse, guardandola, limpidamente, negli occhi — io non posso risparmiartelo questo dolore: e tu devi sopportarlo. Per l’amore che mi porti, per quello che ti porto, madre, madre, soffri per me, perchè io non posso, non farti soffrire.... È così, madre cara, è così!

— Bene, Fausto — ella disse, fredda e fiera.

Un lieve colpetto fu battuto alla porta: e Giorgio Ardore entrò, col suo passo leggiero, che era in armonia con la sua figura di diciassettenne, snella e pur vigorosa, agile ed elegante, in ogni attitudine. Sul fresco volto sorridevano in dolcezza e in una malizia gentile, i chiari occhi azzurrini; la capigliatura, di un castano vivo, con qualche lucido riflesso cupreo, era ricciuta e coronava una pura fronte bianchissima: un’ombra di peluria sul labbro superiore, già accentuava la virilità e temperava l’aspetto femmineo di quel viso.