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quasi gli mancasse il respiro. Lo sguardo della madre s’incontrò con quello del figlio, e si scrutarono i due sguardi, e le due anime si compresero, e si misurarono, giustamente: e misurarono la immensa distanza che li divideva, più che mai, in quella tempestosa sera di aprile.
Fausto si levò; passò le sue mani sui capelli, per ricomporli, parve fare uno sforzo per calmarsi; si sedette di fronte a Marta Ardore, che non schiudeva le sue labbra pallide, che non batteva ciglio.
— Mamma cara — egli la chiamò, con voce piana e soave.
Marta lo sogguardò: solo un impercettibile tremito nelle mani, che ella teneva incrociate.
— Mamma cara, non puoi tu udirmi? — egli pregò, con voce fatta puerile.
— Ti ho udito, poco fa, dal balcone — ella disse; e nulla soggiunse: e spense, con le palpebre, il lampo dei suoi occhi.
— Non posso, io, chiarirti?...
— Non è necessario, Fausto; meglio tacere — Marta replicò, gelidamente.
Un momento egli tenne, sotto la repressa ira, sotto il represso dolore materno, la testa china. Indi si scosse in un sussulto, gridò con voce impetuosa, con occhi scintillanti:
— Tu mi desti un’anima libera, mamma!
— È vero! — ella proruppe, con voce forte, con occhi scintillanti.
Mai, come in quell’istante Marta e Fausto si rassomigliavano.
— Mamma, anche la tua anima è libera! — gridò Fausto!
— No — ella ribattè, duramente.
— Libera, la tua, come la mia...
— No. No. La mia anima è vincolata dal mio sangue materno. Io non sono libera. Io sono schiava del mio amore per te, per Giorgio.
— Benedetto il piccolo Giorgio, il nostro fanciullo, il nostro fiore! — esclamò dolcissimamente Fausto.