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di tutta la sua vita di donna. — Non ha che me. Io non ho che lui. Egli non parla, non sospira; mai io leggo nei suoi occhi di figliuolo, un abisso di sconforto.
Formavano, le tre madri disperate, un gruppo attorno a Marta Ardore e sentendosi così misere, così perdute, pareva si volgessero a lei, come sempre, per soccorso morale. Ma sotto la sua folta e lucida chioma canuta, il viso della donna apparve loro sconvolto da un dolore, che non trovava parole per esprimersi. Esse compresero: esse sapevano di quale ferita segreta, gemeva sangue quell’anima di madre: esse, rispettando il suo pudore morale, mai nulla dicevano, di quello che era il suo incessante tormento. Timidamente, si accostarono di più a lei, quasi a stringerla in un cerchio magico di affetto; a un tratto ella fece, con le due mani, un cenno di desolata rassegnazione e rialzò il capo, avendo ricacciato in fondo al suo cuore valoroso, il suo tenace cruccio. Nulla più si dissero, le quattro donne, lentamente salutandosi, con poche parole, con voci velate e assorte, con mani molli, andandosene, con passi incerti, a capo basso, lasciando sola, immota, chiusa in sè stessa, Marta Ardore.
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Curva sulla ringhiera del largo verone centrale, quello della sua stanza da letto, coi capelli scompigliati dal vento della sera, fischiante fra gli alberi, che la primavera aveva fatto rifiorire, in via Veneto, rombante come se la terra si muovesse, sotto l’onda del vento, Marta Ardore fissava i suoi occhi, laggiù, laggiù, donde veniva, a tratto, col vento, il clamore della folla, ma una folla informe, che si ammassava, che sempre si accresceva, che ondeggiava, crescendo, laggiù, fra il palazzo Margherita e l’albergo Regina. Ogni tanto, quel clamore confuso si accentrava in un largo canto, di cui arrivavano, in alto di via Veneto, al balcone di Marta Ardore, solo dei frammenti, l’inno di Goffredo Mameli, l’inno di Garibaldi,