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— .... speriamo — gemette, pianissimo, la madre di Gianni.

Ma di lontano, di molto lontano, come se salisse da laggiù, da piazza Barberini, fino a quelle alture estreme di via Veneto, giunse un rombo, un rombo sordo e prolungato, un rombo minaccioso. Tremanti e mute, le tre donne si volsero, ancora, a Marta Ardore, la più vecchia, fra loro, ma la più salda, nella sua anima e nella sua persona.

— È il vento — ella rispose, fermamente. — Molto vento, questa sera: un tempo cattivo.

E poichè tutta la sera, oramai, con le sue ombre, era entrata dalle vetrate, in quel salotto, ella volse il commutatore della luce elettrica, e due o tre lampade, velate carezzosamente di un giallo d’avorio, chiarirono l’ambiente, tranquillo e silenzioso. Eppure, l’incanto di quel pomeriggio di quiete, trascorso soavemente, insieme, nella casa di Marta Ardore, raccolte intorno a Marta Ardore, come faceano spesso, lavorando ai loro gentili lavori femminili, la maglia, l’uncinetto, l’ago, con i fili della seta e del lino, discorrendo teneramente, quasi infantilmente, di quello che era il centro della loro vita, cioè i loro figliuoli, quell’incanto puro, era infranto. La pena che, ognuna di esse, aveva in fondo all’anima, quella pena ora acuta e tagliente, ora pesante e opprimente, quella pena che l’ora di pace aveva cullata e assopita, si era, d’un tratto, risvegliata! e le trafiggeva. Non era scomparso il fantasma, vaporante nell’aria, ma era presente nella stanza illuminata. Indovinando, conoscendo tutto questo, Marta Ardore sogguardò due volte, coi suoi occhi carichi di un fluido di volontà, le sue amiche, madri come lei.

— Bisogna non pensarci; forzarsi, per non pensarci — pronunziò, con gravità, Marta Ardore.

— Come fare, come fare? — domandò, desolatamente, Carmela Soria, la madre di Guido. — Questo terribile pensiero mi sveglia, la notte, in sussulto; mi levo sul letto, sono ghiaccia di paura....

— .... io fuggo la gente, perchè nessuno me ne