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Sulla soglia di Santa Maria degli Angeli, donna Marta Ardore si fermò, venendo dalla penombra della chiesa, abbagliata dal pieno sole mattinale, che faceva scintillare gli alti getti d’acqua della fontana delle Terme. La sua alta figura, vestita signorilmente di nero, conservava quella sua particolar linea d’imponenza: una sottile veletta nera che chiudeva il cappello, gittava una piccola ombra sui canuti capelli e sul composto viso dal pallore di avorio. Accanto a lei, snello, aggraziato, elegante, il suo minor figlio, il diciassettenne Giorgio Ardore, mostrava la freschezza intatta del suo viso, simile a un frutto di primavera, mentre sul capo ancora scoverto, i capelli ricci, castani a riflessi di rame, brillavano al sole. Una piccola signora biondetta e pallidetta li raggiunse, li salutò, li guardò coi suoi occhi di azzurro, che pareano slavati dalle lacrime.

— Oh Carolina, come va, figliuola mia? — disse bonariamente Marta Ardore, a costei, tanto più giovine di lei.

— Va.... — rispose, fiocamente, Carolina Leoni.

— E Loreta vostra? Bene, è vero?

— Credo, sì, bene — mormorò l’altra, voltando in là il viso gentile — È a Treviso.

— A Treviso?

— Da un’amica nostra: per riavvicinarsi a Carletto Valli.

— Siete sola, dunque, Carolina?

— Sola, sì — concluse, con voce fiochissima Carolina Leoni.

Ancora due signore sbucarono da Santa Maria degli Angeli e si accostarono alle altre due. Erano Carmela Soria e Antonia Scalese: la prima aveva le palpebre rosse e gonfie di lacrime, gonfie le labbra del suo piccolo viso di piccola madre. E senza che nessuno le dicesse nulla, sentendosi fra anime gemelle nella pena e nella comprensione della pena, proruppe, subito:

— Donna Marta, donna Marta, Guido, è partito ieri!