lui, sacerdote, per essersi ribellato alla già espressa e già vivente tremenda volontà di Dio, anche se la sua ribellione avesse ingenuamente e forse peccaminosamente, ripetuto le parole di Nostro Signor Gesù Cristo. Egli si prostrò, curvo quasi sino a terra, invocando perdono sulla sua debolezza, sulla sua miseria, invocando per sè quella sublime rassegnazione che discese sull’anima di Gesù e, dopo, tutto fu silenzio sul Golgotha e, infine, infine, fu la sfolgorante luce di risurrezione. Questa unica grazia chiedeva, l’officiante, quella della rassegnazione. Pesava il cuore nel petto di questo sacerdote, come un macigno: e un gelo mortale correva nelle sue vene. Anche la pietà di tutti quei sofferenti, parve si fosse inaridita. Con quelle preghiere, con quelle invocazioni, con quelle grida convulse, ogni persona di quella folla, si straniava da chi lo circondava, da chi gli era vicino: e si sentiva solo, innanzi a Dio e solo si erigeva verso Dio, in un singoiar dialogo: e non chiedeva altro, in un impeto del suo strazio, alla Divinità, che la grazia della vita, pel suo figliuolo, pel suo fratello, pel suo consorte: un’unica grazia, per un’unica persona: un’unica salvazione pel propio sangue, per la propria carne, data al figlio, per il vincolo del sangue e di carne col fratello, col congiunto: la morte doveva essere risparmiata, da Dio, solo a lui, solo a costui, ognuno pregava per un’unica grazia, per un’unica persona, chiuso nell’assoluto, feroce, implacabile egoismo della tenerezza e della passione. Il vicino, il fratello, il prossimo, non esistevano più: e niuno si accorgeva che l’eccesso di questa preghiera, era una offesa alla Divinità, era un sacrilegio. Crudo, tagliente come un pezzo di roccia, era il cuore del sacerdote, nel suo petto. Curvava la testa, sgomento, inorridito dei suoi cupi pensieri, dal conflitto dei suoi sentimenti, e due o tre volte levò gli occhi al Cielo, perchè lo purificasse, perchè lo suadesse, perchè gli rendesse l’umiltà, la bontà, l’indulgenza, perchè riannodasse fra lui e tutti