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376 Sogno di una notte d'estate


roso e disperato. Giammai, giammai, egli avrebbe confessato ad alcuno che amava, se quella desolazione di anima buona appassionata, non lo avesse spinto a tentarne così una disperata salvezza: il suo segreto sarebbe rimasto chiuso nel cuore, noto solo a Dio e a colei che aveva ispirato quell’amore, bocca umana non lo avrebbe ripetuto, orecchio umano non lo avrebbe udito, morto con lui, il segreto. Ma innanzi a quelle lacrime, a quei singhiozzi, innanzi a quella esistenza perduta, egli aveva finito per chiedersi se non era un poco colpevole, se non doveva espiare, tentando di togliere al naufragio quell’anima, con un rimedio estremo. E aveva dischiuso il tempio dove il suo idolo si ergeva, fiero e implacabile, aveva mostrato alla disgraziata fanciulla che l’altare aveva la sua dea, invitta, immortale. Egli, il più mistico fra i sacerdoti dell’amore, che stava a guardia, silenzioso, immoto, del tabernacolo che niun occhio d’uomo doveva rimirare, aveva adesso sollevato i veli sacri e mostrato all’occhio trasognato di Luisa la immagine divina.