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porta di quel monastero, e chiedere di vedere Rachele Cabib; e, se ciò gli avessero consentito, tentare l’ultimo grido di dolore, che scuotesse quel cuore impietrito, e portar via la donna del suo cuore; o, se non glielo consentissero, uccidersi alla porta di quel monastero.

Egli partì dunque disperato, e deciso a tentativi estremi. Suo zio lo accompagnò malinconicamente alla stazione e non tentò di fargli nessuna rimostranza, poichè aveva compreso che suo nipote si trovava in una di quelle ore tremende dell’esistenza, in cui non giovano nè avvertimenti nè consigli. Nel viaggio doloroso, che il conte Lambertini fece verso Napoli, egli mulinò continuamente dei progetti pazzi, che dovevano servire a salvare il suo amore; ma, ogni tanto, egli si scuoteva dal suo delirio e comprendeva che avrebbe certamente mancato il suo scopo. Fu in questo stato di febbre, di pazzia, di frenesia, che egli giunse a Napoli, e che si recò direttamente all’albergo, ansioso di vedere almeno Rosa. Quando le apparve innanzi così pallido, con gli occhi riarsi, coi lineamenti sconvolti, ella, che non sapeva nulla della pratica fatta per via ecclesiastica, si sgomentò. Affannosamente egli narrò quanto era accaduto, ed ella crollava il capo malinconicamente, sentendo sempre più nella sua mente umile, che quella posizione si faceva più grave e più tragica. Da poche, brevi e tetre parole ella comprese che Ranieri Lambrtini, giunto all’estremo della disperazione, avrebbe tentato una di quelle intraprese folli e che se non gli fosse riescita si sarebbe ucciso. Egli non parlò di morte, ma aveva la morte negli occhi e nella voce. Egli non minacciò nè sè stesso, nè altri, ma la minaccia suprema era in tutto lui. Ella era ignorante e semplice, ma la disperazione ha un linguaggio che si fa intendere da tutti, ed ella comprese. Non gli disse nulla, non lo pregò,