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dove era stato sospeso il ritratto di sua madre. Ed uscì. Discese le scale, all’oscuro, così piano che neppure uno scricchiolìo s’intese. Tratteneva il respiro. Camminava all’oscuro, ma aveva la pratica della sua casa e andava diritta, innanzi, nell’ombra, senza urtare in nessun mobile. Quando si trovò nel salotto del primo piano, dove, quattro ore prima, era accaduta quella orribile scena fra lei e Marcus Henner, ella si fermò, di nuovo. Piano piano si diresse verso la cucina, dove, in uno stambugio accanto, dormiva Rosa, la serva. Ed entrò in questo stambugio cautamente, dicendo come un soffio:

— Rosa! Rosa!

— Eccomi, — rispose l’altra, sussultando e balzando dal letto.

— Zitta, per carità, — mormorò Rachele, curvandosi verso lei, parlandole sulla faccia.

— Che avete, signorina? Vi sentite male nuovamente?

— No. Sono guarita.

— E che è, allora? — disse quella, alzando la voce, involontariamente.

— Parla pianissimo! Te ne scongiuro! Se mio padre udisse, saremmo perdute. Vuoi obbedirmi?

— Che volete? Eccomi qua.

— Vèstiti nel più profondo silenzio. —

Pianissimamente, Rosa cominciò a vestirsi: nell’ombra, Rachele aspettava, senza impazientirsi. A ogni movimento più brusco di Rosa, ella tremava tutta, temendo che suo padre udisse.

— Che dobbiamo fare? — disse la serva, quando fu pronta.

— Andar via.

— Ora?

— Ora.

— Per tornare?

— Per non tornare mai più.