tamenti del presidente, non volendo lasciarsi vedere. Di là gli aveva scritto un biglietto, offrendo le sue dimissioni, per motivi di salute; un biglietto secco secco, senza nessuna spiegazione. Nel consegnare la lettera all’usciere, un gran tumulto era accaduto nei suoi nervi, un fiotto di sangue parea lo soffocasse: dopo averlo visto scomparire dietro la porta, egli si era rovesciato sulla poltrona di raso giallo, invecchiato, affralito, come se uscisse da una malattia di dieci anni. Aspettava, aspettava, non osando muoversi, non osando girare in quella Camera donde egli, in quel giorno, volontariamente si esiliava: temeva di farsi vedere, come un colpevole, temeva d’intenerirsi, temeva di buttarsi per terra a piangere su tutto quello che moriva in lui in quel giorno. L’usciere ritornò, con un biglietto del presidente: la Camera, come si usa, a richiesta dell’on. Melillo, gli accordava un congedo di tre mesi. Ma non capivano, dunque, che voleva andarsene? L’agonia, dunque, doveva ricominciare? Dovette scrivere di nuovo al presidente: assolutamente, era ammalato, non poteva più fare il deputato. Ora passeggiava su e giù, nel salotto presidenziale, come un leone in gabbia: e