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La Conquista di Roma 413

chiarore allegro, fra lo scampanio festoso che veniva da Trinità dei Monti. Egli era entrato nel suo tempio, carico di rose, ma col viso pallido ed emaciato: e quella freschezza umida dei fiori, quel loro colorito di salute e di bellezza, urtava con colui che li portava, triste e infermiccio come una serata di ottobre carica di miasmi. Egli metteva al posto le rose, con quell’aria quasi infantile di dolore che fa tanta pietà, per quanto più è ingenua e silenziosa. Quando un lieve tocco del campanello gli sconvolse i nervi, lo fece arrossire, gli mandò le lagrime agli occhi: caddero le rose sul tappeto.

«Sono io, io,» disse, a voce bassa, donn’Angelica, entrando.

Ella non si guardò neppure intorno, entrò subito nel salotto, si buttò sopra una poltrona, mormorando ancora:

«Sono io, sono io.»

Egli restava ritto innanzi a lei, contemplandola con gli occhi inumiditi dalle lagrime, nulla osando dire, non avendo neanche il coraggio di ringraziarla.

La dolce donna aveva tenuta la sua promessa, ella non poteva mentire: col maggio odoroso,