le dita, per profumarsi le mani e per ingannare, con un esercizio monotono, il tempo che non vuole passare, il rosario turco che non è preghiera, ma è un piacere del tatto e dello spirito, il comboloi, pendeva da una gran parete; un grande velo biancastro a stelline d’argento, il mantello delle donne orientali, il feredjè, pendeva da un’altra. Ma la nota dominante, stranissima, era, sopra una parete, un pezzo di broccato giallo antico, qualche cosa come un oriflamma, tagliato nella larghezza e nella lunghezza da una croce che acciecava, che risaltava su tutte le mezze tinte di nocciuola, di mattone smorto, di rosa pallidissima che regnavano in quel salotto. Vi era una morbidezza profonda, mancava sapientemente qualunque mobile di legno, non un tavolino dagli angoli duri, non uno sgabello: il velluto, la seta, il raso nascondevano qualunque traccia di durezza. In certi leggierissimi vaselli opalini dei giacinti rosei, carnicini, violetti, bianchi, lilla pallidissimi; sopra un divano, da un vaso giapponese, una rosa si era sfogliata, come di languore. Dei cuscini di piume, larghi, di seta rossa, rosea, scarlatta, porporina, rosa secca, in tutte le gradazioni del rosso, dal seno della