bee, scuricce, che si facevano nere all’orizzonte, sopra i colli tuscolani, sul Soratte che pareva anche esso un grosso nuvolone sceso sulla terra: una campagna brulla, bigia, qua e là ondulata, come se dovesse sbuzzar fuori; due siepi nere, due siepi ispide e scarnate, senza un’ombra di verde, senza un fiore: qualche osteria di cocina, dai rozzi dipinti sulla parete umidiccia — tre bocce nere che formavano triangolo, un pulcinella che beve una foglietta — ma le porte e le finestre sbarrate, un cancelletto di legno che cadeva in frantumi: il grande fabbricato bigio dove la vedova Mangani dà da mangiare ai romani buontemponi dell’estate e dell’autunno la trippa in brodetto e l’abbacchio alla cacciatora, sopra un terrazzo, sotto un pergolato, in un cortile, dovunque si può mettere una tavola o un litro di vino bianco; quel rudere strano, perduto in un campo, che sembra una colossale poltrona dalla spalliera sbocconcellata e che infatti si chiama la sedia del diavolo; un carrettiere buttato giù, bocconi, sonnecchiante sopra un carro di pozzolana che rientrava verso Roma; ogni tanto, qualche grossa goccia di pioggia che cadeva sul terreno.