coline, uscenti dalla larghezza claustrale delle maniche: e le dita avevano una gentilezza infantile. Chinandosi sulle pianticelle, la testa abbassata lasciava vedere il biancore attraente della nuca, dove i capelli neri segnavano una linea sinuosa e fitta. Quando si rivolgeva verso don Silvio o verso Sangiorgio, nel volto soave era scomparsa, dalle palpebre, l’ombra violetta delle lagrime versate o delle lagrime soffocate: una pacatezza amabile vi regnava. Poi, a un certo punto, ella aveva di nuovo interrogata la faccia legnosa di suo marito: l’occhio vivido dietro la unica lente le aveva detto di rimanere. E poichè ella aveva finita la visita quotidiana alle sue piante, da un vasello aveva preso il fascio delle rose, era andata a sedersi in una poltroncina presso un balcone e odorava i fiori, mentre un po’ di sangue le saliva alle guance pallide. In verità, sulle sedie, sui tavolinetti, sulle mensole era un grande trascinar di giornali, aperti, buttati via, non aperti ancora, con quell’acuto odor d’inchiostro di stamperia: sul tappeto le fascette, sparse, multicolori, a brani, strappate con violenza e con noncuranza. Ma donn’Angelica non li prendeva, i giornali, non li toccava, non li