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286 La Conquista di Roma

sospetto, amarissimo, saliva dal cuore al cervello del ministro dell’interno: in quei cinque minuti di tumulto parlamentare, come quelle piante velenose del tropico che crescono in una notte, il sospetto gli si allargò nell’anima, immenso. Egli guardava il vecchio presidente, fiso fiso, come se volesse strappargli la verità, e temendo che una qualche emozione gli velasse la voce, non gli parlò, non gli chiese nulla: lo guardava, soltanto, aspettando che uscisse da quel silenzio, che scotesse quell’inerzia, che rivivesse, poichè dalla mattina pareva morto. Ma il presidente taceva e scriveva, carezzandosi con l’altra mano la barba. Allora il ministro, cedendo a un impeto del suo temperamento sanguigno, si piegò sul banco, per leggere che cosa scriveva il presidente. Niente scriveva: disegnava un pupazzetto, con molta attenzione di disegnatore, e si carezzava la barba con l’altra mano. E il ministro dell’interno si rifece indietro, calmo a un tratto, un po’ pallido, senza sospetto. La certezza era venuta, innegabile. Egli sentì l’abbandono, sentì il tradimento. I colleghi, il presidente lo lasciavano cader solo. Erano già stac-