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La Conquista di Roma 25

dalla testa grossa, sembravano un ragno nero, a due gambe. Il capo-stazione, tutto imbacuccato nel pastrano, con una sciarpa che gli fasciava le mascelle, andava e veniva, tra i facchini, col capo abbassato: e nella freddissima aria mattinale, un sottile odore di terra bagnata, odore acre, feriva il cervello. Un grosso paese, eretto sopra una collina, fortificato da un giro di mura e da due torri, comparve, tutto bigio, tutto vecchio, con un’aria medievale: era Velletri.

Ora, nel treno avveniva un certo risveglio; nel vagone accanto si sentiva scricchiolare il pavimento, due persone parlavano. Da uno sportello di prima classe, la testa d’un prete spagnuolo, molto bruno, dalle guance dure e rase, che avevano un’ombra azzurrina, si sporgeva, fumando alacremente un sigaro. Ma come l’alba s’irradiava in tutto il cielo, bianchissima, gelata, tutta la nudità della campagna romana apparve, nella sua grandezza. Su quei prati a perdita di vista, smarriti in una luce mite, un’erba rada e piccola cresceva, di un verde tutto molle di acquitrino; qua e là grandi appezzamenti giallastri, macchiati di marrone, una terra grossa e rude, pietrosa, fangosa, incoltivabile. Era un imperial deserto

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