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La Conquista di Roma 283

sposta ambigua: a Roma si facevano una quantità di deduzioni filosofiche e sociali, ma nessun atto di volontà. La Camera approvava tanto forte, che il suo presidente dovette due volte richiamarla all’ordine. Sangiorgio parlava con una speciale durezza di voce, con una brevità di accento e di frasi, con una tale aridezza di forma, che le più piccole cose facevano effetto: e parevano, quei fatti, tanti scatti di un’arma infallibile, tutti colpivano al segno, implacabili.

Era un atto di accusa, una requisitoria compilata con la crudeltà fredda di un magistrato, dalla collera legale e morale. Sangiorgio aveva la faccia rude e concentrata, i lineamenti immobili, non sorrideva, non gesticolava, non ricorreva a nessuna delle solite astuzie dell’oratore: pareva così profondamente sicuro e compenetrato della sua causa, che solo l’enunciazione precisa e glaciale bastava. Non faceva commenti, o quasi mai: era una enumerazione di fatti, passava dall’uno all’altro, dicendo, ogni tanto: ma non basta, vi è dell’altro. Questa frase, ripetuta ogni tre o quattro minuti, monotona come un ritornello tragico, faceva una grande impressione: dei brividi nervosi parea corressero lungo la spina